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domenica 24 luglio 2011

Ma l'America è in America?

Tornato da un recente viaggio di lavoro negli Stati Uniti mi sono concesso il lusso di una passeggiata per le strade di Manhattan, New York. Così, senza preconcetti, da semplice osservatore.

Camminando per le vie della città quello che più mi ha colpito non sono i grattacieli, o le torme di turisti (principalmente italiani...) che si affannano per salire, entrare, vedere, comprare, ma la gente della città. Capita così di incontrare a pochi metri di distanza, nella più totale indifferenza reciproca, la scioretta (termine milanese intraducibile per il suo significato intrinseco) miliardaria seduta fuori da Central Park in attesa del marito o delle amiche, e il barbone, l'homeless, attorniato dal suo carrello e le poche cose che rappresentano la sua esistenza. Indifferenza.
Fatti poi pochi passi verso la 5th Avenue fuori dalla boutique di uno dei marchi maggiormente falsificato al mondo (e questo sta a sottolinearne il successo) una disoccupata che, con un cartello scritto in bella grafia, racconta tutta la società americana dall'Ottobre del 2008 a oggi. Con una dignità imbarazzante per chi la guarda o legge il cartone. Ma anche qui indifferenza. O non voler guardare?

Entrato poi in un negozio di un noto marchio americano per un po' di acquisti ho avuto, non dico la certezza, ma almeno un indizio dell'inizio dei problemi degli Stati Uniti: non c'era un capo di abbigliamento prodotto in USA o, per lo meno, in Europa. Quasi tutto (per concedere il beneficio del dubbio) realizzato in Cina o in altre economie emergenti dell'Oriente.
Bieco nazionalismo il mio?
A loro la scelta; per me si tratta dell'evidenza di come quella nazione che ha inventato l'industria di massa stia perdendo, e purtroppo non lentamente, la sua capacità manifatturiera che non è solo la Ford o la General Motors ma tutto l'insieme di fabbriche, laboratori e botteghe che realizzavano i prodotti di uso comune.

A mio avviso sarà difficile per loro, e tra un po' per noi europei, risalire la china della crisi economica se continuiamo a delocalizzare le produzioni manifatturiere svuotando i territori, oltre del lavoro in sè, di tutto il substrato di competenze e conoscenze pratiche.